«Un reparto partigiano italiano, al fianco degli eserciti alleati in Giappone, sarebbe un fatto importante». Nel maggio del 1945 c’era un piccolo gruppo di partigiani liguri che era pronto a partire per andare a combattere contro l’impero giapponese. Un ultimo atto della Resistenza dentro la Seconda Guerra Mondiale, mentre già all’orizzonte si delineava il mondo diviso da una nuova linea di faglia, quella della Guerra Fredda.
Ho scoperto questa storia in un dettagliato sito (da cui vengono molte delle foto di questo articolo) che raccoglie memorie e studi della Brigata Coduri, formazione che operava nell’entroterra di Riva Trigoso e Sestri Levante, zona a elevata concentrazione operaia (cantieri navali) nel Levante ligure. La Brigata era nata – come semplice banda, “banda Virgola” – per iniziativa di militanti comunisti e operai e di ex prigionieri Alleati, ma poi era cresciuta anche con l’innesto progressivo di diversi disertori delle formazioni dell’esercito regolare della RSI: alpini della Divisione Monterosa che erano stati schierati in Liguria per contrastare un eventuale sbarco alleato (in altre zone c’erano bersaglieri dell’Italia e fanti di marina della San Marco).
A differenza dei reparti apertamente fascisti (come la GNR o le Brigate Nere) in queste unità molti soldati – alcuni già passati dalla deportazione in Germania – combattevano senza grande determinazione ideologica e le diserzioni furono migliaia. In parte attraversando le linee e arrendendosi agli Alleati sull’Appennino, in parte passando alla ben più rischiosa vita partigiana: a novembre erano cento gli alpini passati con i patrioti, altrettanti avevano disertato ed erano stati lasciati liberi di tornare a casa. Prendendo ad esempio proprio i ranghi della Coduri, a fine guerra gli alpini disertori erano il 9% degli effettivi della formazione (più un altro 1% da altri reparti Rsi).
Nel 1945 la Coduri divenne una divisione, su tre brigate più le squadre Sap. Dopo aver combattuto duramente nelle valli appenniniche ma anche sulla costa, al 25 aprile – che in realtà inizia la notte del 24 – riuscì a liberare Sestri Levante e Chiavari, nonostante la presenza di forti contingenti tedeschi, evitando al contempo che gli Alleati aprissero il fuoco con le artiglierie navali, che avrebbero avuto come conseguenza la devastazione degli abitati: l’ultima fase costa 12 morti e 35 feriti ai partigiani.
Genova fu l’unica città del Nord dove le forze partigiane costrinsero alla resa, autonomamente, tutti i contingenti tedeschi, complice l’isolamento totale della costa ligure che avrebbe reso impossibile la ritirata verso la pianura padana e, di qui, verso l’Austria. L’orgoglio di questo grande successo militare, ottenuto con alcuni giorni di anticipo rispetto al resto del Nord, lasciò però quasi immediatamente il posto ad una rapida normalizzazione. Lo intuì subito Aldo Gastaldi “Bisagno”, comandante dal carisma eccezionale: «Nella polizia non ci andiamo; se questi ragazzi vanno nella polizia, poi li chiamano sbirri e perdiamo tutto quel poco di buono che abbiamo fatto», dice al suo comandante di brigata Stefano Malatesta “Croce”, che riporta il colloquio in una intervista.
Il ritorno alla normalità dopo la guerra partigiana è stato per molti traumatico, tra delusioni politiche, necessità contingenti di sopravvivenza (sfociata in qualche caso anche nella criminalità comune), una angoscia quasi esistenziale (quella dei racconti di Fenoglio, dei romanzi di Cassola). Proprio quest’ultimo sentimento sembra riecheggiare nelle parole con cui Aldo Vallerio “Riccio”, comandante della brigata Zelasco della Coduri, racconta nel suo libro “Ne è valsa la pena?” la folle idea di andare a combattere dall’altra parte del mondo:
La Coduri era una brigata a maggioranza comunista (anche se questo non significava che tutti i singoli partigiani lo fossero), eppure nelle motivazioni addotte sembra prevalere la necessità di un riscatto nazionale: per Vallerio sembra più urgente dimostrare l’esistenza della nuova Italia rispetto alla lotta per la rivoluzione o comunque per un più profondo rinnovamento della società.
Arrivati a Roma, i partigiani liguri si scontrano con lo scarso entusiasmo del governo e al contempo con il realismo di Togliatti:
Insomma, alla fine su quell’insolito proposito bellico prevale una certa disillusione, ma anche la disciplina di partito. Del resto Vallerio era già iscritto al PCI dai tempi della montagna e lo rimase anche nella nuova Italia democratica, divenendo consigliere comunale (a Sestri Levante e poi a Lavagna) e affiancandovi l’impegno per l’Anpi.
Per completare questo racconto va ricordato che l’Italia, con l’armistizio, divenne nemica della Germania ma – è meno noto – anche del Giappone. Alcune navi della Regia Marina – come la bananiera Ramb II – si autoaffondarono, altre furono catturate, in alcun casi dopo essersi consegnate volontariamente: salvo alcune eccezioni, i giapponesi internarono anche molti marinai e soldati che volevano continuare combattere al loro fianco prestando giuramento alla Rsi. A tutti i militari fu riservato un trattamento molto duro, ma duro fu anche quello riservato ai civili italiani (una testimonianza piuttosto nota è quella della scrittrice Dacia Maraini).
La consapevolezza che l’Italia era in guerra anche con il Giappone non sfuggiva comunque anche ai partigiani. L’episodio più rilevante è quello dell’agguato al contrammiraglio Tōyō Mitsunobu, a Pianosinatico, sulla strada dell’Abetone, a opera dei partigiani della XI Zona Patrioti, formazione autonoma (rispondeva solo al CLN) guidata da Manrico Ducceschi “Pippo”. Mitsunobu era il responsabile della missione navale nipponica che, già alla vigilia dell’armistizio, per prudenza era stata trasferita da Roma a Merano.
A maggio 1944 Mitsunobu raggiunse la missione navale tedesca a Montecatini Terme e il 5 di giugno si rimise in viaggio verso Nord, per raggiungere la Svizzera per motivi diplomatici. Quasi al valico dell’Abetone fu però appunto intercettato dagli autonomi di “Pippo”, che tendevano frequenti agguati ai mezzi nazifascisti in transito. I partigiani ferirono l’attendente di Mitsunobu, che però riuscì a fuggire, e uccisero l’alto ufficiale (l’autista, italiano di Merano, fu lasciato libero). In quell’occasione gli uomini della XI Zona riuscirono anche a mettere le mani su diversi documenti, poi consegnati agli Alleati: si può pensare che – visto il livello dell’ufficiale cui erano stati sottratti – contenessero informazioni rilevanti e le memorie della XI Zona riferiscono che a seguito di quell’azione gli Alleati presero a sostenere più convintamente la formazione.
Negli stessi giorni in tutt’altra parte d’Italia (valli del Pasubio, sopra Schio) vennero catturati ed eliminati altri due giapponesi, Yujiro Makise e Mitsui Asaka. A lungo creduti ambasciatori, sono stati identificati solo di recente grazie ad una accurata ricerca edita dall’Istituto Storico della Resistenza di Vicenza: erano tecnici dell’industria giapponese, in Italia per occuparsi di possibili forniture di minisommergibili.
Tornando all’episodio di Mitsunobu offre l’occasione per collegarci a un carattere peculiare di alcune brigate partigiane del Centro Italia: la decisione di proseguire la guerra a fianco degli Alleati anche dopo la liberazione delle loro zone di “arruolamento”, avvenuta già nel 1944. Così accadde agli abruzzesi della Brigata Maiella, che entrarono a Bologna e si spinsero con alcuni plotoni fino all’altopiano di Asiago. O ancora, appunto, alla “XI Zona Patrioti” di “Pippo” Ducceschi, i cui uomini per mesi affiancarono gli afroamericani della 92a Divisione “Buffalo”, respingendo i contrattacchi tedeschi in Garfagnana. E infine parteciparono all’avanzata nella valpadana, l’ultima “corsa” fino a Milano.
Cosa spingeva quei partigiani? Voglia di riscatto nazionale o di chiudere i conti con i tedeschi. O anche la difficoltà a rientrare nella normalità e rinunciare a un ruolo attivo che avevano conquistato nella Storia. Forse gli stessi pensieri che animavano i partigiani liguri che avrebbero voluto continuare a combattere contro i giapponesi.